Santo (2)
Il Santo
è collocato nel momento culminante della celebrazione: la preghiera
eucaristica. Talvolta sfugge questa sua collocazione, e se ne fa una parte a sé
stante, come slegato da quello che lo circonda. Forse ciò è conseguenza della
sua collocazione storica, in quanto parte dell'Ordinarium Missae (quei canti della Messa che hanno testo
invariabile come il Gloria, il Credo, il Kyrie,l’Agnus Dei e il Sanctus). La straordinaria produzione
musicale della tradizione cattolica ha cristallizzato questa posizione,
oscurando però quello che è il dato fondamentale del Santo: il suo essere parte piena della preghiera eucaristica. Ed è
in questa precisa collocazione che ce lo presenta l'Ordinamento Generale del Messale Romano (nn 78-79). Dopo aver brevemente
presentato la suddetta preghiera come preghiera di grazie e di santificazione,
l'OGMR passa ad elencare gli elementi che la compongono.
Essi sono:
La prima parte di quest'acclamazione è presa da libro del profeta lsaia (6,1-4): «Nell'anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva lo faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l'uno all'altro: "Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta lo terra è piena della sua gloria." Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo».
La meditazione di questo testo dice molto di più di tante parole sulla natura, il carattere e la funzione del Sanctus. Permette anche di fare dei confronti storici di fedeltà o meno a questo carattere. La seconda parte e presa dal Vangelo secondo Matteo (21,8-9) che descrive l'entrata trionfante di Gesù in Gerusalemme, accolto da grida di trionfo: «La folla numerosissima stese i suoi mantelli sullo strada mentre altri tagliavano rami dagli olberi e li stendevano sulla via. Lo follo che andava innanzi e quella che veniva dietro gridava: Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».
Queste due parti che appartengono all’Antico e al Nuovo Testamento, sono unite da scene di trionfo e grandiosità e possono essere lette una sull'altra. Anche nell’Apocalisse (4,8), che suggella l'intera Bibbia, troviamo un eco poderoso del Sanctus: «l quattro esseri viventi hanno ciascuno sei oli, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte, non cessano di ripetere: Santo, santo, santo, il Signore Dio, l'onnipotente, colui che era, che è e che viene».
Nelle liturgie orientali, prima del brano di Isaia viene anteposto il testo tratto dal libro del profeta Daniele (9,10): «mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano». Il Liber pontificalis ne attribuisce a papa Sisto I (127) I'introduzione, ma questo sarebbe falso in quanto esso verrebbe introdotto nella liturgia nel VI secolo (senza Benedictus). Inizialmente veniva cantato coralmente dal popolo e ne abbiamo ancora testimonianza in qualcuna delle melodie gregoriane, semplici e sillabiche.
Nel medioevo si usava cantarlo come un inno trionfale, anche con il suono di trombe. E fu anche un canto trionfale durante il rinascimento, in cui solitamente si trova così ripartito: un inizio molto solenne («Sanctus, sanctus, sanctus...»), seguito da una parte più spigliata («Pleni sunt...»); ecco I'Osanna giubilante (spesso in ritmo diverso). Il successivo Benedictus (che fino al Concilio Vaticano II verrà cantato dopo la consacrazione, come speciale segno di adorazione per la venuta di Cristo nell'Eucaristia) è meditativo e devoto e viene concluso dalla ripresa dell' Osanna.
Come abbiamo osservato in queste rapide «pennellate» sulle parti della Messa, le forme rituali della liturgia subiscono inevitabilmente l'influenza della contingenza storica. Per esempio, nel XVIII secolo il Sanctus viene sovraccaricato di gesti rituali che probabilmente non gli sono pertinenti. Ne è testimonianza questo testo di sant’Alfonso Maria de' Liguori: «Giunto che sarà al Sanctus, il sacerdote mediocremente inclinato ricongiunga le mani avanti il petto, senza appoggiarle sull'altare, e dica con voce mediocre Sanctus etc. Alle parole Benedictus qui venit si alzi e si segni con la croce, tenendo la sinistra sotto il petto, e col medesimo tuono di voce, potendo così distribuire le parole. Alla parola Benedictus, si segnerà la fronte; dicendo qui venit, si segnerà nel petto; nello parola in nomine Domini segnerà la spalla sinistra; dicendo Hosanna in excelsis segnerà la spalla destra. Alcuni vogliono che qui si dovessero congiungere le mani, altri lo negano, non essendo precettato dalla rubrica; ma a me pare che debbano congiungersi, perché la rubrica prima del Te igitur dice estensi manibus; dunque suppone che si debbano prima congiungere».
Agli inizi del nostro secolo, nel periodo detto «ceciliano», molti autori snatureranno il carattere trionfante e acclamatorio del Sanctus, fornendone un'interpretazione diversa. Quel Sanctus tre volte ripetuto viene spesso fatto sentire piano, quasi in lontananza, eco del canto degli angeli che noi possiamo solo percepire ... tutto questo non è certo estraneo ad una influenza romantica abbastanza palese. Dopo il Vaticano II il Santo ha riacquistato, almeno nelle intenzioni, il suo carattere acclamatorio.
Bisogna dire con onestà che nella Chiesa italiana, prescindendo dalle melodie gregoriane, ci sono tre o quattro melodie che si sono abbastanza imposte e che consentono di eseguire questo canto piuttosto ampiamente nelle nostre assemblee. Certo si deve tenere conto di quello che viene prima e di quello che verrà dopo. Quell'«una voce dicentes» (per dirlo alla latina) è più di una frase conclusiva prima dell'acclamazione, anzi, non è conclusiva affatto. Essa è come il «la» del diapason che ci dà una precisa intonazione: questo canto dev'essere intonato da tutti, con una sola voce e un solo cuore. Questo non proibisce, là dove si avesse un buon coro, di alternare una polifonia al canto dell'assemblea. Come abbiamo visto anche nelle puntate precedenti, la fedeltà alle rubriche oggi non dev'essere intesa in un senso deteriore di legalismo ottuso, ma deve avere due pilastri che si chiamano «buon senso» e «buon gusto». Il buon senso ci mette davanti alle nostre assemblee e alle loro reali possibilità (ma anche alle nostre responsabilità di ministri del canto), il buon gusto ci evita di volare alto se non abbiamo le ali, ma anche di volare troppo basso e perdere quelle poche piume che ci siamo faticosamente conquistati.
(Aurelio Porfiri, in La Vita in Cristo e nella Chiesa, n. 5, marzo 2005)
Essi sono:
- I'azione di grazie (particolarmente
il prefazio);
- I'acclamazione («Tutta l'assemblea, unendosi olle creature celesti, canta il Santo.
Questa acclamazione, che fa parte della preghiera eucaristica, è proclamata da
tutto il popolo con il sacerdote»);
- l'epiclesi («Lo Chiesa implora con speciali invocazioni la potenza dello Spirito
Santo, perché i doni offerti dogli uomini siano consacrati, cioè diventino il
Corpo e il Sangue di Cristo...»);
- il racconto dell'istituzione e la
consacrazione («Mediante le parole e i
gesti di Cristo, si compie il sacrificio che Cristo stesso istituì nell’ultima
Cena…»);
- l'anamnesi, in cui la Chiesa celebra il
memoriale di Cristo;
- l'offerta («Nel corso di questo stesso memoriale la Chiesa, in modo particolare
quella radunata in quel momento e in quel luogo, offre al Padre nello Spirito
Santo lo vittima immacolata»);
- le intercessioni («Con esse si esprime che I'Eucaristia viene
celebrata in comunione con tutto la Chiesa...»);
- la dossologia finale («con essa si esprime lo glorificazione di
Dio; viene ratificata e conclusa con l'acclamazione del popolo: Amen»).
La prima parte di quest'acclamazione è presa da libro del profeta lsaia (6,1-4): «Nell'anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva lo faccia, con due si copriva i piedi e con due volava. Proclamavano l'uno all'altro: "Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta lo terra è piena della sua gloria." Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo».
La meditazione di questo testo dice molto di più di tante parole sulla natura, il carattere e la funzione del Sanctus. Permette anche di fare dei confronti storici di fedeltà o meno a questo carattere. La seconda parte e presa dal Vangelo secondo Matteo (21,8-9) che descrive l'entrata trionfante di Gesù in Gerusalemme, accolto da grida di trionfo: «La folla numerosissima stese i suoi mantelli sullo strada mentre altri tagliavano rami dagli olberi e li stendevano sulla via. Lo follo che andava innanzi e quella che veniva dietro gridava: Osanna al figlio di Davide! Benedetto colui che viene nel nome del Signore! Osanna nel più alto dei cieli!».
Queste due parti che appartengono all’Antico e al Nuovo Testamento, sono unite da scene di trionfo e grandiosità e possono essere lette una sull'altra. Anche nell’Apocalisse (4,8), che suggella l'intera Bibbia, troviamo un eco poderoso del Sanctus: «l quattro esseri viventi hanno ciascuno sei oli, intorno e dentro sono costellati di occhi; giorno e notte, non cessano di ripetere: Santo, santo, santo, il Signore Dio, l'onnipotente, colui che era, che è e che viene».
Nelle liturgie orientali, prima del brano di Isaia viene anteposto il testo tratto dal libro del profeta Daniele (9,10): «mille migliaia lo servivano e diecimila miriadi lo assistevano». Il Liber pontificalis ne attribuisce a papa Sisto I (127) I'introduzione, ma questo sarebbe falso in quanto esso verrebbe introdotto nella liturgia nel VI secolo (senza Benedictus). Inizialmente veniva cantato coralmente dal popolo e ne abbiamo ancora testimonianza in qualcuna delle melodie gregoriane, semplici e sillabiche.
Nel medioevo si usava cantarlo come un inno trionfale, anche con il suono di trombe. E fu anche un canto trionfale durante il rinascimento, in cui solitamente si trova così ripartito: un inizio molto solenne («Sanctus, sanctus, sanctus...»), seguito da una parte più spigliata («Pleni sunt...»); ecco I'Osanna giubilante (spesso in ritmo diverso). Il successivo Benedictus (che fino al Concilio Vaticano II verrà cantato dopo la consacrazione, come speciale segno di adorazione per la venuta di Cristo nell'Eucaristia) è meditativo e devoto e viene concluso dalla ripresa dell' Osanna.
Come abbiamo osservato in queste rapide «pennellate» sulle parti della Messa, le forme rituali della liturgia subiscono inevitabilmente l'influenza della contingenza storica. Per esempio, nel XVIII secolo il Sanctus viene sovraccaricato di gesti rituali che probabilmente non gli sono pertinenti. Ne è testimonianza questo testo di sant’Alfonso Maria de' Liguori: «Giunto che sarà al Sanctus, il sacerdote mediocremente inclinato ricongiunga le mani avanti il petto, senza appoggiarle sull'altare, e dica con voce mediocre Sanctus etc. Alle parole Benedictus qui venit si alzi e si segni con la croce, tenendo la sinistra sotto il petto, e col medesimo tuono di voce, potendo così distribuire le parole. Alla parola Benedictus, si segnerà la fronte; dicendo qui venit, si segnerà nel petto; nello parola in nomine Domini segnerà la spalla sinistra; dicendo Hosanna in excelsis segnerà la spalla destra. Alcuni vogliono che qui si dovessero congiungere le mani, altri lo negano, non essendo precettato dalla rubrica; ma a me pare che debbano congiungersi, perché la rubrica prima del Te igitur dice estensi manibus; dunque suppone che si debbano prima congiungere».
Agli inizi del nostro secolo, nel periodo detto «ceciliano», molti autori snatureranno il carattere trionfante e acclamatorio del Sanctus, fornendone un'interpretazione diversa. Quel Sanctus tre volte ripetuto viene spesso fatto sentire piano, quasi in lontananza, eco del canto degli angeli che noi possiamo solo percepire ... tutto questo non è certo estraneo ad una influenza romantica abbastanza palese. Dopo il Vaticano II il Santo ha riacquistato, almeno nelle intenzioni, il suo carattere acclamatorio.
Bisogna dire con onestà che nella Chiesa italiana, prescindendo dalle melodie gregoriane, ci sono tre o quattro melodie che si sono abbastanza imposte e che consentono di eseguire questo canto piuttosto ampiamente nelle nostre assemblee. Certo si deve tenere conto di quello che viene prima e di quello che verrà dopo. Quell'«una voce dicentes» (per dirlo alla latina) è più di una frase conclusiva prima dell'acclamazione, anzi, non è conclusiva affatto. Essa è come il «la» del diapason che ci dà una precisa intonazione: questo canto dev'essere intonato da tutti, con una sola voce e un solo cuore. Questo non proibisce, là dove si avesse un buon coro, di alternare una polifonia al canto dell'assemblea. Come abbiamo visto anche nelle puntate precedenti, la fedeltà alle rubriche oggi non dev'essere intesa in un senso deteriore di legalismo ottuso, ma deve avere due pilastri che si chiamano «buon senso» e «buon gusto». Il buon senso ci mette davanti alle nostre assemblee e alle loro reali possibilità (ma anche alle nostre responsabilità di ministri del canto), il buon gusto ci evita di volare alto se non abbiamo le ali, ma anche di volare troppo basso e perdere quelle poche piume che ci siamo faticosamente conquistati.
(Aurelio Porfiri, in La Vita in Cristo e nella Chiesa, n. 5, marzo 2005)