Il canto di offertorio (2)
L'offertorio e la sua relativa antifona, hanno costituito uno degli argomenti
forti del dibattito scatenatosi con la riforma liturgica. L'IGMR, al numero 74,
afferma: «Il canto all'offertorio (cf. n.
37, b) accompagna la processione con la quale si portano i doni; esso si protrae
almeno fino o quando i doni sono stati deposti sull'altare. Le norme che regolano
questo canto sono le stesse previste per il canto d'ingresso (cf. n. 48). È
sempre possibile accompagnare con il canto i riti offertoriali, anche se non si
svolge lo processione con i doni.» Quindi, questo è un canto processionale,
nel senso che accompagna il movimento di coloro che sono
incaricati di recare le offerte all'altare. Quando la «presentazione dei doni» (come viene chiamato questo momento con proprietà di linguaggio liturgico) non si svolge con la processione si può cantare un'antifona da parte dell'assemblea o della schola.
Sul momento dell'offertorio abbiamo una significativa testimonianza di Giustino (secolo II): «Terminate le preghiere, ci abbracciamo con scambievole bacio. Quindi viene recato al presidente dai fratelli un pane, una coppa d'acqua e uno coppa di vino temperato. (...) Cessate le preghiere, si reca come si è detto pane, vino e acqua, e il presidente della comunità nello stesso modo eleva preghiere e ringraziamenti con tutte le sue forze, e il popolo acclama dicendo. Amen.» (Apologia, 65-67).
È verosimile pensare che questo canto sia stato introdotto fin dal secolo VII. Probabilmente all'origine esso era un salmo antifonico, la forma più popolare di canto all'epoca. All'inizio esso era semplice e popolare, ma ai tempi di Gregorio Magno, fu sviluppato dai maestri della schola romana, divenendo un canto responsoriale. L'antifona, divenuta ritornello, si sviluppò in tutto il suo virtuosismo, divenendo appannaggio esclusivo degli esperti cantori. Con il tempo quindi solo l'antifona rimase, a svantaggio dei versetti del salmo. Chiunque si avvicina ancora oggi agli offertori gregoriani può constatarne la bellezza ma anche la difficoltà, probabilmente seconda sola a quella dei graduali (per i canti della Messa). Essi spesso richiedono ai cantori un'estensione vocale molto grande ed un'abilità virtuosistica non indifferente. Forse e anche per questo che, con I'avvento della polifonia, al momento dell'offertorio viene tralasciato il canto (ed il testo) corrispondente ed eseguito un mottetto. Anche se in epoca rinascimentale alcuni autori musicheranno comunque i testi corrispondenti dell'offertorio, basti pensare a Palestrina e al suo bellissimo libro degli «Offertori». Come già detto, con il tempo questo momento della Messa verrà spesso riempito o con un mottetto dal testo generico o con un brano strumentale. Ancora oggi, facilmente, il rito dell'offertorio viene visto come il classico momento del virtuosismo, dell'esibizione del solista. Basti pensare ai matrimoni, in cui è classico cantare al momento dell'offertorio l'Ave Maria, con contorno di lacrime e fazzoletti (questo meriterebbe una trattazione autonoma) ... Insomma, il rito dell'offertorio era divenuto un tempo da riempire con qualcosa piuttosto che svolgersi nel suo stabilito progetto rituale-sonoro (per questa introduzione storica e altre informazioni si veda: L. Schuster, "Liber Sacramenctorum", parte lll, Marietti, 1967, pp 84-86; Theodor Schnitzeler, Il significato della messa, Città Nuova, Roma 1986, pp 121-124).
La riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano ll, ha anche puntualizzato teologicamente questa sezione. È illuminante la riflessione di Theodor Schnitzeler, in Il significato dello messa: «L'Offertorio, inizialmente semplice preparazione del pane e del vino, impropriamente chiamati doni, subì dopo i primi secoli una trasformazione in senso contrattuale, con pericolo di contaminazioni pagane. I doni non
erano più i doni di Dio per i quali si benediceva il Padre nel segno della morte e risurrezione di Gesù Cristo, mo diventavano doni dell'uomo per impetrare che Dio si facesse presente sull'altare. La condivisione dei beni che, secondo Giustino, avveniva come frutto concreto dello partecipazione al Corpo e Sangue di Cristo, ero spostata a questo punto della Messo e diventava offertorio a Dio dei beni della terra per impetrare i beni del cielo. La riforma liturgica ha mutato opportunamente la preghiera di "offertorio" in benedizione e ringraziamento, come preludio allo grande benedizione della preghiera eucaristica.
Un'altra testimonianza interessante a tale proposito è un testo di Annibale Bugnini, in La riforma liturgica, in cui si parla delle osservazioni che Papa Paolo VI andava facendo sull'offertorio, durante la redazione del nuovo 'Ordo Missae'. «Le formule di offerta del pane e del vino» osservava il Papa, «sono due belle espressioni eucologiche, ma che non hanno alcuna intenzionalità oblativa, se si tolgono i due incisi: "quem Tibi offerimus", "quod Tibi offerimus"; non sono, senza di essi, formule dell'offertorio. Perciò sembra che tali due incisi diano valore specifico d'offerta al gesto e alle parole. Tuttavia si rimette la decisione circa la loro permanenza o la loro soppressione al giudizio collegiale del "Consilium"». Il giudizio collegiale del "Consilium", dopo lunga discussione risultò come segue: 12 voti favorevoli all'introduzione degli incisi: "quem Tibi offerimus" e "quod Tibi offerimus"; 14 contrari, 5 favorevoli a cercare un'espressione che, pur accennando alla presentazione degli elementi che serviranno al sacrificio, non contenga il termine "offrire". Era questo, infatti, che faceva difficoltà, per non anticipare o sminuire il valore dell'unica vera offerta di Cristo immolato, espresso nel canone. La frase proposta restò, potendosi provvedere alle difficoltà su accennate con le traduzioni. Ad esempio, l'italiano traduce: "che ti presentiamo". Anche Crispino Valenziano, nel suo libro L'anello della sposa, afferma: «In effetti, le diverse preghiere inserite per accompagnare la gestualità ne avevano fatto una parte della Messa a sé stante, quasi un'anafora raccorciata e anticipata, come se lo messa avesse due momenti di offerta sacrificale: uno, la nostra, al momento dell'offertorio, l'altro, di Cristo, nella preghiera eucaristica. Spiegare l'offertorio ci è stato difficile e imbarazzante. Perché una distinzione dell'offerta in quei due momenti equivale a dichiarare che il secondo momento, il momento del Cristo, ha l'effetto totale mentre il primo momento, questo dell'assemblea, non significa nulla; conducendo di fatto a una concezione dissolutiva dell'assemblea, quasi che di diritto non esistesse nel suo corpo un'azione congiunta con il suo capo Cristo.
La tematica teologica dietro questo momento rituale, come vediamo, è abbastanza ampia e degna di essere attentamente ponderata. Il canto dell'offertorio, a mio avviso, deve tenere conto di alcuni dati fondamentali. Il primo riguarda cosa deve fare chi canta. In questo caso, a differenza che nel rito di introito (in piedi) e del rito di comunione (in processione), I'assemblea si trova seduta. Quindi può accompagnare questo momento anche con un bel canto di carattere innico, non avendo difficoltà a tenere un libretto per leggerne le strofe. Laddove ci fosse la schola, è sempre bello alternare una forma responsoriale con un bel
ritornello affidato a tutta I'assemblea e la polifonia delle strofe eseguita dalla schola. Viene suggerito che si potrebbe anche trasformare in dialogo cantato il testo recitato altrimenti dal sacerdote con la risposta corale del popolo «Benedetto nei secoli il Signore!» In questo senso esistono tentativi nel mondo anglosassone, ma nelle nostre comunità cristiane non risultano tentativi che si siano affermati. Il secondo è che questo solitamente è un momento ad estensione temporale variabile, che dipende dal numero dei ministri, dal fatto che ci sia o no l'incensazione, dal fatto che si faccia o no la processione offertoriale ... quindi i canti dovrebbero consentire una certa flessibilità.
Il senso di lode e ringraziamento dovrebbe permeare i testi. Personalmente non credo che questo momento debba essere riservato al mottetto della schola ma, per la sua natura intrinseca, dovrebbe esprimere anche nel canto il senso del «popolo di Dio» ordinato secondo i suoi carismi (schola, cantore, presidente...). Insomma, un inno di benedizione che si eleva dalle voci di ognuno per riecheggiare nei cuori in unione di tutti.
(Aurelio Porfiri, in "La Vita in Cristo e nella Chiesa", n. 10, 2004)
incaricati di recare le offerte all'altare. Quando la «presentazione dei doni» (come viene chiamato questo momento con proprietà di linguaggio liturgico) non si svolge con la processione si può cantare un'antifona da parte dell'assemblea o della schola.
Sul momento dell'offertorio abbiamo una significativa testimonianza di Giustino (secolo II): «Terminate le preghiere, ci abbracciamo con scambievole bacio. Quindi viene recato al presidente dai fratelli un pane, una coppa d'acqua e uno coppa di vino temperato. (...) Cessate le preghiere, si reca come si è detto pane, vino e acqua, e il presidente della comunità nello stesso modo eleva preghiere e ringraziamenti con tutte le sue forze, e il popolo acclama dicendo. Amen.» (Apologia, 65-67).
È verosimile pensare che questo canto sia stato introdotto fin dal secolo VII. Probabilmente all'origine esso era un salmo antifonico, la forma più popolare di canto all'epoca. All'inizio esso era semplice e popolare, ma ai tempi di Gregorio Magno, fu sviluppato dai maestri della schola romana, divenendo un canto responsoriale. L'antifona, divenuta ritornello, si sviluppò in tutto il suo virtuosismo, divenendo appannaggio esclusivo degli esperti cantori. Con il tempo quindi solo l'antifona rimase, a svantaggio dei versetti del salmo. Chiunque si avvicina ancora oggi agli offertori gregoriani può constatarne la bellezza ma anche la difficoltà, probabilmente seconda sola a quella dei graduali (per i canti della Messa). Essi spesso richiedono ai cantori un'estensione vocale molto grande ed un'abilità virtuosistica non indifferente. Forse e anche per questo che, con I'avvento della polifonia, al momento dell'offertorio viene tralasciato il canto (ed il testo) corrispondente ed eseguito un mottetto. Anche se in epoca rinascimentale alcuni autori musicheranno comunque i testi corrispondenti dell'offertorio, basti pensare a Palestrina e al suo bellissimo libro degli «Offertori». Come già detto, con il tempo questo momento della Messa verrà spesso riempito o con un mottetto dal testo generico o con un brano strumentale. Ancora oggi, facilmente, il rito dell'offertorio viene visto come il classico momento del virtuosismo, dell'esibizione del solista. Basti pensare ai matrimoni, in cui è classico cantare al momento dell'offertorio l'Ave Maria, con contorno di lacrime e fazzoletti (questo meriterebbe una trattazione autonoma) ... Insomma, il rito dell'offertorio era divenuto un tempo da riempire con qualcosa piuttosto che svolgersi nel suo stabilito progetto rituale-sonoro (per questa introduzione storica e altre informazioni si veda: L. Schuster, "Liber Sacramenctorum", parte lll, Marietti, 1967, pp 84-86; Theodor Schnitzeler, Il significato della messa, Città Nuova, Roma 1986, pp 121-124).
La riforma liturgica successiva al Concilio Vaticano ll, ha anche puntualizzato teologicamente questa sezione. È illuminante la riflessione di Theodor Schnitzeler, in Il significato dello messa: «L'Offertorio, inizialmente semplice preparazione del pane e del vino, impropriamente chiamati doni, subì dopo i primi secoli una trasformazione in senso contrattuale, con pericolo di contaminazioni pagane. I doni non
erano più i doni di Dio per i quali si benediceva il Padre nel segno della morte e risurrezione di Gesù Cristo, mo diventavano doni dell'uomo per impetrare che Dio si facesse presente sull'altare. La condivisione dei beni che, secondo Giustino, avveniva come frutto concreto dello partecipazione al Corpo e Sangue di Cristo, ero spostata a questo punto della Messo e diventava offertorio a Dio dei beni della terra per impetrare i beni del cielo. La riforma liturgica ha mutato opportunamente la preghiera di "offertorio" in benedizione e ringraziamento, come preludio allo grande benedizione della preghiera eucaristica.
Un'altra testimonianza interessante a tale proposito è un testo di Annibale Bugnini, in La riforma liturgica, in cui si parla delle osservazioni che Papa Paolo VI andava facendo sull'offertorio, durante la redazione del nuovo 'Ordo Missae'. «Le formule di offerta del pane e del vino» osservava il Papa, «sono due belle espressioni eucologiche, ma che non hanno alcuna intenzionalità oblativa, se si tolgono i due incisi: "quem Tibi offerimus", "quod Tibi offerimus"; non sono, senza di essi, formule dell'offertorio. Perciò sembra che tali due incisi diano valore specifico d'offerta al gesto e alle parole. Tuttavia si rimette la decisione circa la loro permanenza o la loro soppressione al giudizio collegiale del "Consilium"». Il giudizio collegiale del "Consilium", dopo lunga discussione risultò come segue: 12 voti favorevoli all'introduzione degli incisi: "quem Tibi offerimus" e "quod Tibi offerimus"; 14 contrari, 5 favorevoli a cercare un'espressione che, pur accennando alla presentazione degli elementi che serviranno al sacrificio, non contenga il termine "offrire". Era questo, infatti, che faceva difficoltà, per non anticipare o sminuire il valore dell'unica vera offerta di Cristo immolato, espresso nel canone. La frase proposta restò, potendosi provvedere alle difficoltà su accennate con le traduzioni. Ad esempio, l'italiano traduce: "che ti presentiamo". Anche Crispino Valenziano, nel suo libro L'anello della sposa, afferma: «In effetti, le diverse preghiere inserite per accompagnare la gestualità ne avevano fatto una parte della Messa a sé stante, quasi un'anafora raccorciata e anticipata, come se lo messa avesse due momenti di offerta sacrificale: uno, la nostra, al momento dell'offertorio, l'altro, di Cristo, nella preghiera eucaristica. Spiegare l'offertorio ci è stato difficile e imbarazzante. Perché una distinzione dell'offerta in quei due momenti equivale a dichiarare che il secondo momento, il momento del Cristo, ha l'effetto totale mentre il primo momento, questo dell'assemblea, non significa nulla; conducendo di fatto a una concezione dissolutiva dell'assemblea, quasi che di diritto non esistesse nel suo corpo un'azione congiunta con il suo capo Cristo.
La tematica teologica dietro questo momento rituale, come vediamo, è abbastanza ampia e degna di essere attentamente ponderata. Il canto dell'offertorio, a mio avviso, deve tenere conto di alcuni dati fondamentali. Il primo riguarda cosa deve fare chi canta. In questo caso, a differenza che nel rito di introito (in piedi) e del rito di comunione (in processione), I'assemblea si trova seduta. Quindi può accompagnare questo momento anche con un bel canto di carattere innico, non avendo difficoltà a tenere un libretto per leggerne le strofe. Laddove ci fosse la schola, è sempre bello alternare una forma responsoriale con un bel
ritornello affidato a tutta I'assemblea e la polifonia delle strofe eseguita dalla schola. Viene suggerito che si potrebbe anche trasformare in dialogo cantato il testo recitato altrimenti dal sacerdote con la risposta corale del popolo «Benedetto nei secoli il Signore!» In questo senso esistono tentativi nel mondo anglosassone, ma nelle nostre comunità cristiane non risultano tentativi che si siano affermati. Il secondo è che questo solitamente è un momento ad estensione temporale variabile, che dipende dal numero dei ministri, dal fatto che ci sia o no l'incensazione, dal fatto che si faccia o no la processione offertoriale ... quindi i canti dovrebbero consentire una certa flessibilità.
Il senso di lode e ringraziamento dovrebbe permeare i testi. Personalmente non credo che questo momento debba essere riservato al mottetto della schola ma, per la sua natura intrinseca, dovrebbe esprimere anche nel canto il senso del «popolo di Dio» ordinato secondo i suoi carismi (schola, cantore, presidente...). Insomma, un inno di benedizione che si eleva dalle voci di ognuno per riecheggiare nei cuori in unione di tutti.
(Aurelio Porfiri, in "La Vita in Cristo e nella Chiesa", n. 10, 2004)