Il canto finale (2)
Parlare del canto finale comporta sicuramente qualche
difficoltà. Questo perché, al contrario delle altre parti della Messa che
abbiamo sin qui osservato, questa non ha una sua fisionomia «giuridica». Basta
leggere I'Ordinamento Generale del Messale
Romano. Alla fine del capitolo II che presenta la «Struttura, elementi e
parti della Messa», a proposito dei Riti di conclusione troviamo scritto: «I riti di conclusione comprendono:
a) brevi avvisi, se necessari;
b) il saluto e lo benedizione del sacerdote, che in alcuni giorni e in certe circostanze si può arricchire e sviluppare con l’orazione sul popolo o con un'altra formula più solenne;
c) il congedo del popolo da parte del diacono o del sacerdote, perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio;
d) il bacio dell'altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l'inchino profondo all'altare da porte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri» (90).
E qui termina la descrizione. Come vediamo non si fa una specifica menzione del canto finale. Ma una lettura attenta può offrirci qualche spunto di riflessione.
Ai riti di conclusione tutto si è compiuto. Cristo si è trasformato nel pane e nel vino e abbiamo vissuto quanto accaduto nell'ultima cena. Finita la distribuzione della comunione siamo seduti o in ginocchio per cercare di meditare sempre più su questo inesprimibile mistero. Ora in qualche modo si deve concludere la celebrazione e sancire lo scioglimento di quel dato popolo di Dio ordinato nei suoi carismi e ministeri. Come intendere questi riti di conclusione? A mio avviso il nome può essere fuorviante. Per secoli e secoli le celebrazioni liturgiche, «le sacre cerimonie» sono state il momento in cui il sacro, appunto, si manifestava in opposizione al profano, che rimaneva fuori dal tempio. Ma il problema non si può risolvere così semplicemente: «La nozione e l’esperienza del sacro sono talmente legate all'orizzonte di comprensione religioso e culturale che una società ha di se stesso e al contesto storico con i vari riflessi personali e sociali, che il voler prescindere da questi legami per poter isolare un significato unitario di "sacro", non soggetto a variabili comprometterebbe già sul nascere la volontà di dire qualcosa di serio su questa categoria religiosa o pre-religiosa». (A. N. Terrin,«Sacro», in Nuovo dizionario di liturgia, Domenico Sartore e Achille M. Triacca, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, 1988, p 1304). La stessa definizione non aiuta molto per una maggiore chiarezza. «Un primo rilievo di scienza delle religioni infatti, riconosce nel sacro ciò che è separato, che si nasconde, che si deve sottrarre alla vista, che è "differente" e straordinario secondo l'etimologia sacer (latino), o qadosh (ebraico), o haram (arabo), mentre il profano e ciò che si trova davanti (pro) al tempio (fanum) e cioè fuori dall'ambito del sacro. Ora, questa peculiarità intrinseca, questa riservatezza rende ulteriormente difficile una chiarificazione esauriente del significato del sacro. Come chiarire ciò che di sua natura appare non chiarificabile? Come dire del sacro se deve mantenere la sua intimità "differente", "straordinaria", "altra"?». (A. N. Terrin, op. cit., p 1304). Pur essendo questo concetto, quindi, da adoperare con cautela, esso esprime la presenza di qualcosa che è «altro» rispetto alla realtà tangibile. Ma questo non ha portato ad una svalutazione della realtà profana che è poi il luogo dell'incarnazione di Cristo? La liturgia è mettersi alla presenza di una soprannaturalità, ma essa non si manifesta per noi perché noi la portiamo nella nostra storia? Quindi, sarebbe forse da riconsiderare questa divisione fra realtà sacra e realtà profana, non perche il profano entra nel sacro (forse non è mai uscito...) ma soprattutto perché il sacro irrompa nel profano. Come un fiume che rompe i margini del nostro egoismo e della nostra durezza, quello che è separato deve invece «abbattere i bastioni» (come giustamente intuiva von Balthasar) per illuminare il mondo della sua luce.
In questo vedo molto bene la funzione del canto finale. Esso è quel propellente che ci dà la spinta per portare fuori quello che abbiamo accolto dentro, per testimoniare agli altri la nostra trasformazione. L'OGMR ci invita in questo modo: «perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio». Questa precisazione è illuminante per quanto andiamo affermando. Ognuno ritorni alle sue opere di bene, per me, significa anche ognuno ritorni alla sua famiglia, al suo lavoro, alla sua attività con I'intenzione di volgerla al bene, testimoniando l'amore di Dio per noi, la sua lode e benedizione di fronte agli uomini.
Ma cosa è per noi oggi il canto finale? Esso nelle nostre liturgie è inteso fondamentalmente in due modi: come momento per un canto alla Madonna o come momento per la sonata finale dell'organo. Per carità, ci sta anche questo, ma sembra molto limitativo. Innanzitutto, il fatto di mettere la Madonna e l'organo alla fine, in un certo senso serve ad attenuare i «sensi di colpa» per non aver saputo collocarli durante la liturgia. Mi spiego: non sembra che durante la liturgia ci sia uno spazio specifico per la madre di Gesù, quindi «ricordiamola almeno alla fine». Ma questo non e né vero, né corretto. Maria ha il suo posto d'onore nella preghiera eucaristica, così come in molti canti si può mettere in luce benissimo il suo ruolo nella storia della salvezza. Anche se non sono canti per la celebrazione eucaristica in senso stretto (sono più canti per le adorazioni), mi vengono in mente alcuni bellissimi inni nelle quali la presenza di Maria è pienamente affermata: «Ave verum corpus, natum de Maria virgine» (Ave verum); oppure «Nobis datus, nobis natus, ex intacta virgine» (Pange lingua). Il genio di Tommaso d’Aquino (almeno per il secondo caso, in quanto il primo è di dubbia attribuzione) risolve egregiamente la presenza di Maria inserita nel mistero di Cristo.
Un'altra possibilità da non sottovalutare è quella di dedicare un saluto alla Vergine prima dell'Ite missa est. Questo si può fare con acclamazioni o canti mariani non lunghi. Personalmente sperimento questa forma nella chiesa americana di S. Susanna in Roma, quando, prima del corale che chiude la celebrazione, cantiamo «Regina coeli» (naturalmente nel tempo pasquale). Ecco, disponendo di brevi antifone mariane che, come Regina coeli, offrono una visione Maria inserita nel mistero di Cristo e quindi nel mistero della celebrazione, anche questa forma può dare risultati positivi. lo amo i vecchi canti devozionali ma penso che non siano più adeguati alle moderne celebrazioni e al cammino che si è fatto. Sono più adatti a funzioni tipicamente mariane anche se pure in questo ci sarebbe da ridire. Visto che sono oramai nella me moria di tanti perché almeno non dare una rinfrescata ai testi? Così ho visto fare negli Stati Uniti ed è una cosa che funziona.
L’organo dovrebbe avere il suo spazio durante la celebrazione e non essere relegato ad una bella sonata alla fine. Questo mi sembra mortificante per lo strumento e per chi lo suona. La celebrazione offre notevoli opportunità per preludi, interludi, versetti e altro. Il problema è che molti organisti non sono organisti liturgici, ma semplicemente esecutori, e non entrano nello spirito giusto della celebrazione.
C'e poi l'annoso problema del «fugone» generale quando il sacerdote pronuncia l'Ite missa est. Questo è uno dei segni più odiosi della maleducazione liturgica alla quale siamo stati sottoposti. Se il sacerdote si fermasse un poco a cantare il canto finale questo si eviterebbe? Almeno in parte penso di sì. E se insegnasse alla sua comunità che si deve rimanere fino al canto finale questo aiuterebbe? Penso di sì. Insomma, c'e del lavoro da fare e programmare.
Quanto scritto finora non vuol dire che alla fine non si possa anche suonare un bel pezzo di organo o cantare un pezzo mariano. Ma si può fare anche altro. Il canto finale, secondo me, dovrebbe essere quel canto che spinge alla missione, che fa passare dalla liturgia ascoltata alla liturgia vissuta. Già nel Vangelo esistono tanti versetti che potrebbero essere utilizzati: «Andate in tutto il mondo...», «lo sarò con voi…», «Tu solo hai parole di vita...». Ecco lo spirito: passare da una liturgia staccata ad una liturgia che si fa carne nella nostra vita è un obiettivo essenziale per fare in modo che quanto andiamo facendo non rimanga una comoda lavata di mani che lascia le mani sporche. Liturgia e vita, ma soprattutto “«liturgia è vita». Ecco dunque la funzione importante del canto finale, questo canto che risuona ancora in noi quando lasciamo la chiesa. E che risuoni sempre nella nostra vita come una voce amica che ci richiama, in tutto quello che facciamo, alla fonte della speranza che e in noi.
(Aurelio Porfiri, in La Vita in Cristo e nella Chiesa, n.6 - luglio 2005)
a) brevi avvisi, se necessari;
b) il saluto e lo benedizione del sacerdote, che in alcuni giorni e in certe circostanze si può arricchire e sviluppare con l’orazione sul popolo o con un'altra formula più solenne;
c) il congedo del popolo da parte del diacono o del sacerdote, perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio;
d) il bacio dell'altare da parte del sacerdote e del diacono e poi l'inchino profondo all'altare da porte del sacerdote, del diacono e degli altri ministri» (90).
E qui termina la descrizione. Come vediamo non si fa una specifica menzione del canto finale. Ma una lettura attenta può offrirci qualche spunto di riflessione.
Ai riti di conclusione tutto si è compiuto. Cristo si è trasformato nel pane e nel vino e abbiamo vissuto quanto accaduto nell'ultima cena. Finita la distribuzione della comunione siamo seduti o in ginocchio per cercare di meditare sempre più su questo inesprimibile mistero. Ora in qualche modo si deve concludere la celebrazione e sancire lo scioglimento di quel dato popolo di Dio ordinato nei suoi carismi e ministeri. Come intendere questi riti di conclusione? A mio avviso il nome può essere fuorviante. Per secoli e secoli le celebrazioni liturgiche, «le sacre cerimonie» sono state il momento in cui il sacro, appunto, si manifestava in opposizione al profano, che rimaneva fuori dal tempio. Ma il problema non si può risolvere così semplicemente: «La nozione e l’esperienza del sacro sono talmente legate all'orizzonte di comprensione religioso e culturale che una società ha di se stesso e al contesto storico con i vari riflessi personali e sociali, che il voler prescindere da questi legami per poter isolare un significato unitario di "sacro", non soggetto a variabili comprometterebbe già sul nascere la volontà di dire qualcosa di serio su questa categoria religiosa o pre-religiosa». (A. N. Terrin,«Sacro», in Nuovo dizionario di liturgia, Domenico Sartore e Achille M. Triacca, Edizioni S. Paolo, Cinisello Balsamo, Milano, 1988, p 1304). La stessa definizione non aiuta molto per una maggiore chiarezza. «Un primo rilievo di scienza delle religioni infatti, riconosce nel sacro ciò che è separato, che si nasconde, che si deve sottrarre alla vista, che è "differente" e straordinario secondo l'etimologia sacer (latino), o qadosh (ebraico), o haram (arabo), mentre il profano e ciò che si trova davanti (pro) al tempio (fanum) e cioè fuori dall'ambito del sacro. Ora, questa peculiarità intrinseca, questa riservatezza rende ulteriormente difficile una chiarificazione esauriente del significato del sacro. Come chiarire ciò che di sua natura appare non chiarificabile? Come dire del sacro se deve mantenere la sua intimità "differente", "straordinaria", "altra"?». (A. N. Terrin, op. cit., p 1304). Pur essendo questo concetto, quindi, da adoperare con cautela, esso esprime la presenza di qualcosa che è «altro» rispetto alla realtà tangibile. Ma questo non ha portato ad una svalutazione della realtà profana che è poi il luogo dell'incarnazione di Cristo? La liturgia è mettersi alla presenza di una soprannaturalità, ma essa non si manifesta per noi perché noi la portiamo nella nostra storia? Quindi, sarebbe forse da riconsiderare questa divisione fra realtà sacra e realtà profana, non perche il profano entra nel sacro (forse non è mai uscito...) ma soprattutto perché il sacro irrompa nel profano. Come un fiume che rompe i margini del nostro egoismo e della nostra durezza, quello che è separato deve invece «abbattere i bastioni» (come giustamente intuiva von Balthasar) per illuminare il mondo della sua luce.
In questo vedo molto bene la funzione del canto finale. Esso è quel propellente che ci dà la spinta per portare fuori quello che abbiamo accolto dentro, per testimoniare agli altri la nostra trasformazione. L'OGMR ci invita in questo modo: «perché ognuno ritorni alle sue opere di bene lodando e benedicendo Dio». Questa precisazione è illuminante per quanto andiamo affermando. Ognuno ritorni alle sue opere di bene, per me, significa anche ognuno ritorni alla sua famiglia, al suo lavoro, alla sua attività con I'intenzione di volgerla al bene, testimoniando l'amore di Dio per noi, la sua lode e benedizione di fronte agli uomini.
Ma cosa è per noi oggi il canto finale? Esso nelle nostre liturgie è inteso fondamentalmente in due modi: come momento per un canto alla Madonna o come momento per la sonata finale dell'organo. Per carità, ci sta anche questo, ma sembra molto limitativo. Innanzitutto, il fatto di mettere la Madonna e l'organo alla fine, in un certo senso serve ad attenuare i «sensi di colpa» per non aver saputo collocarli durante la liturgia. Mi spiego: non sembra che durante la liturgia ci sia uno spazio specifico per la madre di Gesù, quindi «ricordiamola almeno alla fine». Ma questo non e né vero, né corretto. Maria ha il suo posto d'onore nella preghiera eucaristica, così come in molti canti si può mettere in luce benissimo il suo ruolo nella storia della salvezza. Anche se non sono canti per la celebrazione eucaristica in senso stretto (sono più canti per le adorazioni), mi vengono in mente alcuni bellissimi inni nelle quali la presenza di Maria è pienamente affermata: «Ave verum corpus, natum de Maria virgine» (Ave verum); oppure «Nobis datus, nobis natus, ex intacta virgine» (Pange lingua). Il genio di Tommaso d’Aquino (almeno per il secondo caso, in quanto il primo è di dubbia attribuzione) risolve egregiamente la presenza di Maria inserita nel mistero di Cristo.
Un'altra possibilità da non sottovalutare è quella di dedicare un saluto alla Vergine prima dell'Ite missa est. Questo si può fare con acclamazioni o canti mariani non lunghi. Personalmente sperimento questa forma nella chiesa americana di S. Susanna in Roma, quando, prima del corale che chiude la celebrazione, cantiamo «Regina coeli» (naturalmente nel tempo pasquale). Ecco, disponendo di brevi antifone mariane che, come Regina coeli, offrono una visione Maria inserita nel mistero di Cristo e quindi nel mistero della celebrazione, anche questa forma può dare risultati positivi. lo amo i vecchi canti devozionali ma penso che non siano più adeguati alle moderne celebrazioni e al cammino che si è fatto. Sono più adatti a funzioni tipicamente mariane anche se pure in questo ci sarebbe da ridire. Visto che sono oramai nella me moria di tanti perché almeno non dare una rinfrescata ai testi? Così ho visto fare negli Stati Uniti ed è una cosa che funziona.
L’organo dovrebbe avere il suo spazio durante la celebrazione e non essere relegato ad una bella sonata alla fine. Questo mi sembra mortificante per lo strumento e per chi lo suona. La celebrazione offre notevoli opportunità per preludi, interludi, versetti e altro. Il problema è che molti organisti non sono organisti liturgici, ma semplicemente esecutori, e non entrano nello spirito giusto della celebrazione.
C'e poi l'annoso problema del «fugone» generale quando il sacerdote pronuncia l'Ite missa est. Questo è uno dei segni più odiosi della maleducazione liturgica alla quale siamo stati sottoposti. Se il sacerdote si fermasse un poco a cantare il canto finale questo si eviterebbe? Almeno in parte penso di sì. E se insegnasse alla sua comunità che si deve rimanere fino al canto finale questo aiuterebbe? Penso di sì. Insomma, c'e del lavoro da fare e programmare.
Quanto scritto finora non vuol dire che alla fine non si possa anche suonare un bel pezzo di organo o cantare un pezzo mariano. Ma si può fare anche altro. Il canto finale, secondo me, dovrebbe essere quel canto che spinge alla missione, che fa passare dalla liturgia ascoltata alla liturgia vissuta. Già nel Vangelo esistono tanti versetti che potrebbero essere utilizzati: «Andate in tutto il mondo...», «lo sarò con voi…», «Tu solo hai parole di vita...». Ecco lo spirito: passare da una liturgia staccata ad una liturgia che si fa carne nella nostra vita è un obiettivo essenziale per fare in modo che quanto andiamo facendo non rimanga una comoda lavata di mani che lascia le mani sporche. Liturgia e vita, ma soprattutto “«liturgia è vita». Ecco dunque la funzione importante del canto finale, questo canto che risuona ancora in noi quando lasciamo la chiesa. E che risuoni sempre nella nostra vita come una voce amica che ci richiama, in tutto quello che facciamo, alla fonte della speranza che e in noi.
(Aurelio Porfiri, in La Vita in Cristo e nella Chiesa, n.6 - luglio 2005)