La professione di fede (2)
La professione di fede (o Credo) è una parte della liturgia tra le più importanti ma anche tra le più "complicate" per quello che riguarda la sua resa nel canto. Questo può essere dovuto a vari motivi: il testo è lungo e non metrico (difficoltà che già incontrammo con il Gloria), non prevede un ritornello nella sua struttura base, necessita di essere eseguito da tutti, in quanto espressione dell'adesione dì fede di ognuno.
Insomma, al musicista che si appresta a comporre un Credo, destinandolo al canto dell'assemblea, si presenta tra le mani una bella gatta da pelare. Il nuovo Ordinamento Generale del Messole Romano si occupa della professione di fede ai nn 67 e 68: "Il simbolo, o professione di fede, ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla Parola di Dio, proclamata nella lettura dello sacra Scrittura e spiegata nell'omelia; e perché, recitando la regola della fede, con una formula approvata per l'uso liturgico, torni a meditare e professi i grondi misteri dello fede, prima dello loro celebrazione nell'Eucaristia' (07).
"Il simbolo deve essere cantato o recitato dal sacerdote insieme con il popolo nelle domeniche e nelle solennità; si può dire anche in particolari celebrazioni più solenni. Se si proclama in canto, viene intonato dal sacerdote o, secondo l'opportunità, dal cantore o dalla schola, ma viene cantato da tutti insieme o dal popolo alternativamente con la schola. Se non si canta, viene recitato da tutti insieme o a cori alterni" (68).
Vediamo come viene particolarmente sottolineato il carattere comunitario della professione di fede. Non dimentichiamo il momento della celebrazione in cui ci troviamo: è stata appena pronunciata l'omelia e, dopo "un breve momento di silenzio", come stabilisce lo stesso Ordinamento, si recita o canta il simbolo che conduce alla preghiera dei fedeli e alla liturgia eucaristica. Questo movimento dinamico è importante: la risposta alla Parola di Dio appena ascoltata e meditata nell'omelia e nel silenzio spinge ad elevare a Dio le nostre preghiere, e a prepararci alla celebrazione dell'Eucaristia. Quindi il Credo dovrebbe essere non una recitazione stanca e meccanica di formule, che a forza di ripetersi perdono nella mente del credente il loro peso semantico, ma un'asserzione convinta e decisa di quelle che sono le verità vive e operanti della nostra fede. È un movimento bidirezionale che risponde a qualcosa che è successo (Liturgia della parola) e prepara a quello che succederà (Liturgia Eucaristica).
Non si può tacere, per onesta espositiva, il fatto che più di qualche teologo ha suscitato I'interrogativo se non si possa oggi formulare la professione di fede con altre parole, più aderenti e vicine alla mentalità e alla capacità di comprensione dell'uomo contemporaneo. Da parte di alcuni si sostiene che le prime professioni di fede erano composte da brevi frasi a carattere eminentemente cristologico, e che la formulazione che attualmente abbiamo del Credo risenta di una certa mentalità teologica che oggi non sarebbe più attuale. Per onestà intellettuale bisogna dire che anche queste critiche, di solito nate in area franco-germanica, risentono di una certa mentalità teologica, ma mi rendo canta che il problema è serio e complesso e non può essere affrontato in queste poche righe.
Troviamo una prima formulazione del Credo negli atti del Concilio di Nicea (325) in cui si ribadiva la dottrina del Verbo consustanziale al Padre, contro I'eresia ariana. Nel Concilio di Costantinopoli (382) venne precisata la dottrina sullo Spirito Santo contro i lacedoniani, e in quello di Calcedonia (451) venne ratificato.
In origine si diffuse nell'Oriente tramite Costantinopoli. La prima nazione ad introdurlo in Occidente fu la Spagna. Esso, tradotto in latino, si diffuse per tutto I'impero franco-romano ma non a Roma. Alla recensione originaria fu aggiunto il "Filioque" che non era presente nel testo greco. Cos'è il "Filioque"?
Sr tratta di quella formula in cui si stabilisce che lo Spirito Santo procede sia dal Padre che dal Figlio (Credo nello Spirito Santo, che e Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio...) e che sarà all'origine del grande scisma con la Chiesa d'Oriente. Leone III (795-816) aveva approvato tale dottrina ma non aveva incluso questa formula nel Credo. Malgrado ciò la formula veniva inclusa ugualmente nella professione di fede e con questa cantata. Il Concilio di Aquisgrana (798) lo impose per interessamento di Paolino di Aquileia che ne curò una recensione latina comprensiva del Filioque. A Roma il Credo veniva cantato solo nelle cerimonie battesimali. [imperatore Enrico II, durante una sua visita alla città nel 1014 fu sorpreso dal fatto che il Credo non si cantasse durante la Messa. Pregò il Papa Benedetto VII (1012-1024) di introdurlo nella stessa e il Pontefice così fece.
Nelle varie tradizioni liturgiche il Credo non ha avuto sempre lo stesso posto: a Costantinopoli e a Milano si trovava dopo l'offertorio, in Spagna prima della comunione e del Pater noster, a Benevento veniva proclamato dopo il Vangelo. Roma scelse quest'ultima posizione. Questo canto all'inizio era destinato al popolo e ne troviamo testimonianza nell'antica melodia del Credo l, abbastanza semplice nell'esecuzione Ma l'unica melodia sopravvissuta nel canto delle nostre assemblee è quella del Credo III, di composizione tarda.
Nei secoli il canto del Credo seguirà il destino di altre parti della Messa, nell'ambito della radicalizzazione nella divisione tra Ordinario (testi che si ripetono in tutte le Messe, come Signore pietà, Gloria, Credo, Santo, Agnello di Dio) e Proprio (testi che variano a seconda della celebrazione, come l'antifona d'ingresso, di offertorio e di comunione). Il Credo conoscerà il trattamento mottettistico (già visto in altre parti della Messa precedentemente trattate) specialmente nell'epoca rinascimentale. Fino al Concilio Vaticano II esso verrà riservato alla schola per intero. Alcune parti di esso saranno particolarmente ispiratrici per la fantasia di numerosissimi compositori, come "Et incarnatus est", in cui si chinava la testa, "Crucifixus" e "Et resurrexit" (vedi: L. Schuster, "Liber Sacramenctorum", pp 83-84; F. Rainoldi, "Psallite sapienter", pp 167).
Il Credo pone molti problemi se lo si vuol far cantare da tutti: senza una guida qualificata, come quella della schola o, in mancanza di questa, dì un animatore liturgico, il canto della professione di fede rimane impresa ardua. Qui ritorna sempre I'annoso discorso che senza una qualificata presenza musicale (leggi "professionale") consapevole e partecipe dei cambiamenti liturgici e dei nuovi attori della celebrazione (nuovi per modo di dire, forse meglio dire "riscoperti"), riuscire a cantare bene questo testo è impresa improba. Esistono varie melodie e proposte, ma l'esperienza dice che raramente la pratica di cantare il simbolo ha preso piede nella prassi della Chiesa italiana. Nelle celebrazioni papali ho avuto modo di osservare due rese sonore dr questo canto: una è quella dell'alternanza tra cori (schola e assemblea), I'altra è quella della proclamazione del testo da parte della schola con intervento "responsoriale" dell'assemblea che partecipa con una breve invocazione. Cosa è meglio? Veramente non è facile dirlo. Alternare può essere una buona cosa ma a mio avviso non rende ragione alla struttura teologica del canto, riducendo tutto a una sorta di botta e risposta. Il Credo con ritornello tende a far divenire anche questo canto una formula responsoriale come già troviamo in altre parti della Messa, diminuendo la varietà intrinseca e possibile nelle forme musicali della liturgia. Sempre nelle celebrazioni papali ho notato una pratica interessante riguardo a questo canto; quella di dare importanza ad alcune parti di esso seguendo le sollecitazioni dei tempi liturgici. Usando la melodia gregoriana del Credo III, si "polifonizza" solo quel verso che aderisce al tempo liturgico corrente: a Natale "per noi uomini e per lo nostro salvezza...", in Quaresima "Fu crocifisso per noi ...", a Pasqua "il terzo giorno...". Trovo questa forma molto interessante, a patto che si riesca ad insegnare a tutta I'assemblea una melodia con il testo in italiano. Forse il modo giusto e quello di insistere domenica dopo domenica, magari con brevi prove prima della celebrazione e perseverando con abnegazione. Un buon metodo è quello di lavorare a parte con dei particolari gruppi parrocchiali o con i catechisti, in modo che in mezzo all'assemblea ci sia già qualcuno che conoscendo il canto possa trascinare anche gli altri. La pazienza e la buona volontà, dovrebbero dare, prima o poi, buoni frutti.
(Aurelio Porfiri, in "La Vita in Cristo e nella Chiesa", n. 10, 2004)
Insomma, al musicista che si appresta a comporre un Credo, destinandolo al canto dell'assemblea, si presenta tra le mani una bella gatta da pelare. Il nuovo Ordinamento Generale del Messole Romano si occupa della professione di fede ai nn 67 e 68: "Il simbolo, o professione di fede, ha come fine che tutto il popolo riunito risponda alla Parola di Dio, proclamata nella lettura dello sacra Scrittura e spiegata nell'omelia; e perché, recitando la regola della fede, con una formula approvata per l'uso liturgico, torni a meditare e professi i grondi misteri dello fede, prima dello loro celebrazione nell'Eucaristia' (07).
"Il simbolo deve essere cantato o recitato dal sacerdote insieme con il popolo nelle domeniche e nelle solennità; si può dire anche in particolari celebrazioni più solenni. Se si proclama in canto, viene intonato dal sacerdote o, secondo l'opportunità, dal cantore o dalla schola, ma viene cantato da tutti insieme o dal popolo alternativamente con la schola. Se non si canta, viene recitato da tutti insieme o a cori alterni" (68).
Vediamo come viene particolarmente sottolineato il carattere comunitario della professione di fede. Non dimentichiamo il momento della celebrazione in cui ci troviamo: è stata appena pronunciata l'omelia e, dopo "un breve momento di silenzio", come stabilisce lo stesso Ordinamento, si recita o canta il simbolo che conduce alla preghiera dei fedeli e alla liturgia eucaristica. Questo movimento dinamico è importante: la risposta alla Parola di Dio appena ascoltata e meditata nell'omelia e nel silenzio spinge ad elevare a Dio le nostre preghiere, e a prepararci alla celebrazione dell'Eucaristia. Quindi il Credo dovrebbe essere non una recitazione stanca e meccanica di formule, che a forza di ripetersi perdono nella mente del credente il loro peso semantico, ma un'asserzione convinta e decisa di quelle che sono le verità vive e operanti della nostra fede. È un movimento bidirezionale che risponde a qualcosa che è successo (Liturgia della parola) e prepara a quello che succederà (Liturgia Eucaristica).
Non si può tacere, per onesta espositiva, il fatto che più di qualche teologo ha suscitato I'interrogativo se non si possa oggi formulare la professione di fede con altre parole, più aderenti e vicine alla mentalità e alla capacità di comprensione dell'uomo contemporaneo. Da parte di alcuni si sostiene che le prime professioni di fede erano composte da brevi frasi a carattere eminentemente cristologico, e che la formulazione che attualmente abbiamo del Credo risenta di una certa mentalità teologica che oggi non sarebbe più attuale. Per onestà intellettuale bisogna dire che anche queste critiche, di solito nate in area franco-germanica, risentono di una certa mentalità teologica, ma mi rendo canta che il problema è serio e complesso e non può essere affrontato in queste poche righe.
Troviamo una prima formulazione del Credo negli atti del Concilio di Nicea (325) in cui si ribadiva la dottrina del Verbo consustanziale al Padre, contro I'eresia ariana. Nel Concilio di Costantinopoli (382) venne precisata la dottrina sullo Spirito Santo contro i lacedoniani, e in quello di Calcedonia (451) venne ratificato.
In origine si diffuse nell'Oriente tramite Costantinopoli. La prima nazione ad introdurlo in Occidente fu la Spagna. Esso, tradotto in latino, si diffuse per tutto I'impero franco-romano ma non a Roma. Alla recensione originaria fu aggiunto il "Filioque" che non era presente nel testo greco. Cos'è il "Filioque"?
Sr tratta di quella formula in cui si stabilisce che lo Spirito Santo procede sia dal Padre che dal Figlio (Credo nello Spirito Santo, che e Signore e dà la vita e procede dal Padre e dal Figlio...) e che sarà all'origine del grande scisma con la Chiesa d'Oriente. Leone III (795-816) aveva approvato tale dottrina ma non aveva incluso questa formula nel Credo. Malgrado ciò la formula veniva inclusa ugualmente nella professione di fede e con questa cantata. Il Concilio di Aquisgrana (798) lo impose per interessamento di Paolino di Aquileia che ne curò una recensione latina comprensiva del Filioque. A Roma il Credo veniva cantato solo nelle cerimonie battesimali. [imperatore Enrico II, durante una sua visita alla città nel 1014 fu sorpreso dal fatto che il Credo non si cantasse durante la Messa. Pregò il Papa Benedetto VII (1012-1024) di introdurlo nella stessa e il Pontefice così fece.
Nelle varie tradizioni liturgiche il Credo non ha avuto sempre lo stesso posto: a Costantinopoli e a Milano si trovava dopo l'offertorio, in Spagna prima della comunione e del Pater noster, a Benevento veniva proclamato dopo il Vangelo. Roma scelse quest'ultima posizione. Questo canto all'inizio era destinato al popolo e ne troviamo testimonianza nell'antica melodia del Credo l, abbastanza semplice nell'esecuzione Ma l'unica melodia sopravvissuta nel canto delle nostre assemblee è quella del Credo III, di composizione tarda.
Nei secoli il canto del Credo seguirà il destino di altre parti della Messa, nell'ambito della radicalizzazione nella divisione tra Ordinario (testi che si ripetono in tutte le Messe, come Signore pietà, Gloria, Credo, Santo, Agnello di Dio) e Proprio (testi che variano a seconda della celebrazione, come l'antifona d'ingresso, di offertorio e di comunione). Il Credo conoscerà il trattamento mottettistico (già visto in altre parti della Messa precedentemente trattate) specialmente nell'epoca rinascimentale. Fino al Concilio Vaticano II esso verrà riservato alla schola per intero. Alcune parti di esso saranno particolarmente ispiratrici per la fantasia di numerosissimi compositori, come "Et incarnatus est", in cui si chinava la testa, "Crucifixus" e "Et resurrexit" (vedi: L. Schuster, "Liber Sacramenctorum", pp 83-84; F. Rainoldi, "Psallite sapienter", pp 167).
Il Credo pone molti problemi se lo si vuol far cantare da tutti: senza una guida qualificata, come quella della schola o, in mancanza di questa, dì un animatore liturgico, il canto della professione di fede rimane impresa ardua. Qui ritorna sempre I'annoso discorso che senza una qualificata presenza musicale (leggi "professionale") consapevole e partecipe dei cambiamenti liturgici e dei nuovi attori della celebrazione (nuovi per modo di dire, forse meglio dire "riscoperti"), riuscire a cantare bene questo testo è impresa improba. Esistono varie melodie e proposte, ma l'esperienza dice che raramente la pratica di cantare il simbolo ha preso piede nella prassi della Chiesa italiana. Nelle celebrazioni papali ho avuto modo di osservare due rese sonore dr questo canto: una è quella dell'alternanza tra cori (schola e assemblea), I'altra è quella della proclamazione del testo da parte della schola con intervento "responsoriale" dell'assemblea che partecipa con una breve invocazione. Cosa è meglio? Veramente non è facile dirlo. Alternare può essere una buona cosa ma a mio avviso non rende ragione alla struttura teologica del canto, riducendo tutto a una sorta di botta e risposta. Il Credo con ritornello tende a far divenire anche questo canto una formula responsoriale come già troviamo in altre parti della Messa, diminuendo la varietà intrinseca e possibile nelle forme musicali della liturgia. Sempre nelle celebrazioni papali ho notato una pratica interessante riguardo a questo canto; quella di dare importanza ad alcune parti di esso seguendo le sollecitazioni dei tempi liturgici. Usando la melodia gregoriana del Credo III, si "polifonizza" solo quel verso che aderisce al tempo liturgico corrente: a Natale "per noi uomini e per lo nostro salvezza...", in Quaresima "Fu crocifisso per noi ...", a Pasqua "il terzo giorno...". Trovo questa forma molto interessante, a patto che si riesca ad insegnare a tutta I'assemblea una melodia con il testo in italiano. Forse il modo giusto e quello di insistere domenica dopo domenica, magari con brevi prove prima della celebrazione e perseverando con abnegazione. Un buon metodo è quello di lavorare a parte con dei particolari gruppi parrocchiali o con i catechisti, in modo che in mezzo all'assemblea ci sia già qualcuno che conoscendo il canto possa trascinare anche gli altri. La pazienza e la buona volontà, dovrebbero dare, prima o poi, buoni frutti.
(Aurelio Porfiri, in "La Vita in Cristo e nella Chiesa", n. 10, 2004)